“Maradona? Messi? Pelé? No, io resto della mia idea: come George Best non c’è mai stato nessuno. Le cose che gli ho visto fare con un pallone trai piedi non sembravano possibili, erano una sorta di magìa continua, una sfida agli avversari e forse anche a se stesso. Certo, sappiamo come è finito, come si è perso. Ma anche su questo mi sono fatto una idea precisa, perché sono stato testimone diretto di quello che gli accadeva. George Best è stato la prima superstar del calcio. E non ha retto. Tutto qui. La pressione dei tifosi, della stampa, del gossip, il vorticoso giro di amiche e amici che gli stava attorno. Ha ceduto. L’alcol, di cui tanto si parla, nella sua vita è arrivato dopo. Fin quando abbiamo giocato assieme, nel Manchester United, non ricordo una volta, una che fosse una, di averlo visto con una pinta di birra in mano o con un bicchiere di whiskey che lo attendesse. Coca Cola beveva, George Best, negli anni in cui nessun terzino al mondo poteva pensare di fermare i suo dribbling o le sue sgroppate folli lungo il campo”.
C’è un velo di malinconia nelle parole di Carlo Sartori, oggi un gentile signore di 74 anni, mezzo secolo fa protagonista di una avventura calcistica che ha dell’incredibile. Lo abbiamo incontrato a Caderzone Terme, il suo paese natale, nella verde Rendena, Trentino. Siamo all’Hotel Rio, dove è di casa quando lascia Manchester. Che il calcio gli sia rimasto appiccicato, nelle passioni come nei ricordi, nitidissimi, lo capiamo subito: è in compagnia di un altro trentino che ha lasciato tracce importanti nel calcio. E’ con Bruno Divina, roccioso difensore valsuganotto che a Bergamo ancora adorano per aver giocato 150 partite consecutive con l’Atalanta. Insieme, erano ad assistere ad una delle tante partite disputate dalle compagini di A e di B in ritiro da queste parti. Si salutano affettuosamente, il ricordo è sempre al campo, a quella volta che... ricordi, abbiamo giocato contro, io col Rimini, tu con i nerazzurri orobici.
Poi Carlo Sartori è tutto per noi. Gli abbiamo portato un settimanale inglese del 1971, Goal. All’interno un poster a tutta pagina con la sua effigie. La maglia è ovviamente quella del Manchester United. Casacca leggendaria e carriera a suo modo unica, quella di Sartori. Il primo italiano a giocare con lo United. Approdo di un destino familiare che è lo specchio di come sia cambiata la sua verde valle. Adesso turismo di alta fascia, squadre di A in ritiro, il vicino Parco dell’Adamello richiamo irresistibile. Quando Carlo viene al mondo, il 10 febbraio 1948, le cose sono un po’ (molto) diverse. Si era poveri, lo si può dire tranquillamente. E in cerca di un destino migliore, si va per il mondo. A fare quello per il quale tutta la Rendena è conosciuta: i moleta, gli arrotini. Così anche per il papà e la mamma di Carlo, Giovanni e Pia. Ha dieci mesi quando la famiglia intera si trasferisce in Inghilterra, a Manchester appunto. A Caderzone faranno ritorno, per la prima volta, quando Carlo di anni ne ha sette. Parla inglese a scuola e nelle strade della città inglese, dove dà calci al pallone con una sicurezza che viene notata e parla il dialetto rendenero a casa. “Sono ricordi struggenti e bellissimi - dice - che porto dentro me con orgoglio. Sono stato fortunato. L’ultimo giorno di scuola il direttore mi chiama e mi informa che un dirigente del Manchester United, Joe Armstrong, sarebbe andato a casa mia per parlare con i miei genitori. Quando sono arrivato stava bevendo un tè con la mamma. Mi hanno preso nelle giovanili. Sono andato allo stadio in autobus e al campo chi ti incontro? Denis Law, lo scozzese, il mio idolo. A 15 anni inizio la mia avventura con i diavoli rossi”.
“Abitavamo nel distretto di Collyhurts - ricorda -, mio padre aveva aperto la Sartori Sharpening Serevices, fornivamo gli alberghi della città di coltelli e forbici sempre affilati al meglio. Nel 1965 firmo il contratto da professionista, avevo 17 anni. L’allenatore era il mitico Matt Busby, in squadra c’era un certo Bobby Charlton. Otto anni prima era scampato miracolosamente alla morte quando l’aereo con tutta la squadra era precipitato a Monaco di Baviera. In quella tragedia era scomparso anche Duncan Edwards. Secondo molti sarebbe diventato il più forte calciatore del mondo. Però né Bobby né Matt parlavano mai di quel tragico 6 febbraio 1958, quando 28 dei 44 passeggeri persero la vita. Erano i Matt Babes.”
Carlo un po’ alla volta conquista spazio nei Red Devils. Chissà, forse anche l’aver dei capelli rossicci aiuta a stare nel Diavoli Rossi. “Ero un centrocampista, faticatore, ma al fianco di uno con i piedi buoni e un tiro al fulmicotone quale Charlton ho acquisito anche tecnica. E il 9 ottobre del 1968 ecco l’esordio nel massimo campionato, che ancora non si chiamava Premier League. 2 a 2 sul campo del Tottenham, non me lo scorderò mai”.
E’ un 1968 da incorniciare, per il giovane Sartori. Il 27 novembre gioca in Coppa Campioni, a Bruxelles, contro l’Anderlecht. E segna, un gol importante per il passaggio del turno. Con i rossi di Manchester il rosso Sartori rimarrà fino al 1973. 56 partite in tutto, sei gol. Tornerà in Italia ed è un’altra storia, tutta da raccontare: giocherà col Bologna di Bulgarelli, poi Spal, Benevento, Lecce, Rimini e, per chiudere, la ”sua” Trento. Vincerà, in Congo, il Mondiale delle nazionali militari in squadra con Furino e Graziani.
Confessa: “Avrei voluto allenare ma il destino ha deciso altrimenti: mio fratello è morto e sono tornato a Manchester, nell’azienda di famiglia. Di nuovo arrotino, senza rimpianti. Fino alla pensione, sei anni fa. A Manchester ho i miei figli, Romina e Giancarlo, l’adorata nipotina e tanti amici. Con Bobby Charlton e gli altri compagni di squadra ci vediamo ai raduni delle old glories, le vecchie glorie. Ma un giorno tornerò qui, all’ombra delle Dolomiti. Qui è il paradiso”.
Dove eravamo partiti? Ah sì, da George Best. “Una sera andammo in discoteca, a ballare. Modestamente, io ci sapevo fare. George se ne stava a bordo pista. Quando mi avvicino mi dice: mi piacerebbe saper ballare come te. E io, di rimando: e a me piacerebbe saper giocare a calcio come sai fare tu. In allenamento Busby ci obbligava a toccare la palla al massimo due volte, poi dovevamo passarla. Lui al secondo tocco la metteva sulla gamba di chi gli stava davanti e poi la riprendeva. Era capace di tenersela stretta ai piedi per decine e decine di tocchi, sempre rispettando la regola del due...”.
E’ il sorriso di un uomo soddisfatto, quello di Carlo Sartori. Ha conosciuto le asperità della vita, è orgoglioso di quel che ha fatto. E il calcio, oggi? “Seguo sempre lo United, ma quel che importa è il bel calcio, il bel gioco”. Parola di chi ha giocato al fianco dei migliori. E di Best. Il migliore, appunto, per Carlo Sartori, arrotino calciatore. (l’incontro è dell’agosto 2019)
Ma che storia meravigliosa