Nel novembre del 2020, era il lunedì 30, scrissi a lungo di Gianni Minà sul quotidiano che allora mi ospitava. Minà se ne è andato ieri a 84 anni, è stato un grande giornalista che oggi tutti - a partire dalla Rai - osannanno, giustamente. Guai però scordare che quella stessa Rai lo epurò, letteralmente cancellandolo. E io non scordo che dopo avergli fatto avere le pagine a lui dedicate, trovò il tempo di rispondermi così: “Grazie Carlo, due pagine ben fatte. Cari saluti. Gianni”. Una medaglia, praticamente. Mi è caro riproporre quel testo.
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"La vita è una milonga, bisogna saperla ballare". In questi due versi di un tango argentino si potrebbe riassumere l'umana vicenda di Gianni Minà, classe 1938. Perché forse non c'è stata, nella storia del giornalismo italiano, vita più smisurata della sua. Minà l’ha raccontata in prima persona in Storia di un boxeur latino pubblicato da Minimum Fax durante il primo lockdown (256 pagine, 16 euro). Sfilano nelle sue pagine l'abbecedario di una generazione e di un secolo: Muhammad Ali, Jorge Amado, i Beatles, Fidel Castro, Adriano Celentano, Robert De Niro, Gabriel García Márquez, Dizzy Gillespie, Sergio Leone, Diego Armando Maradona, Rigoberta Menchú, Pietro Mennea, Mina, Gianni Morandi, David Alfaro Siqueiros, Tommie Smith, Massimo Troisi, Emil Zátopek. Di nome in nome prendono forma di romanzo le avventure di un ragazzo partito da un quartiere di Torino, in calzoncini corti, da una famiglia di origine siciliana, da un maestro in sedia a rotelle. Più che un'autobiografia, una dichiarazione d'amore alla vita, alla musica, allo sport e agli ideali d'altri tempi.
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“Un altro primato è stato il documentario di dieci ore e dieci dvd che nel 2007 realizzai su Diego Armando Maradona. Diego è stato il terzo atleta, dopo Ali e Mennea, che ha attraversato il mio destino e a cui mi sono legato umanamente, la terza stella ribelle del mio firmamento sportivo. Mi ero guadagnato la sua fiducia sin dal nostro primo incontro. Avevo spiegato che volevo parlare con lui non di tattiche ma della vita, di quello in cui credeva, senza pettegolezzi o altre curiosità banali, come due uomini spesso fanno. Maradona aveva apprezzato il mio tentativo di capire, con discrezione ma senza reticenze. Mi aveva confessato che sentiva in me il bisogno di verità, e si era lasciato indagare. Avevo scoperto che era molto più intelligente di come veniva dipinto. Era informato, attento. Leggeva i giornali, non gli sfuggiva nulla. Durante la sua carriera, ma soprattutto dopo, si era sempre lasciato filmare anche nei momenti più difficili e dolorosi, senza negarsi mai. Così avevo scoperto che era un uomo complesso e contraddittorio, ma mai un ipocrita. A suo modo fin troppo generoso. Insomma ha fatto del male solo a se stesso. Per noi giornalisti, con le sue gesta sportive, è stato una benedizione. Mi aveva autorizzato a riprenderlo persino nelle sedute con gli psicologi che frequentava per combattere la dipendenza dalla cocaina. Ma io non ho mai usato quel materiale. Quando lo avevano sospeso dal Mondiale americano, nel 1994, aveva accettato di parlare solo con me. Mi aveva dato appuntamento a metà strada: lui veniva dal Texas, dove aveva giocato, io da Boston. Era stata un’intervista esclusiva e amarissima. La Federazione argentina non aveva presentato neanche gli avvocati a difesa. Lo sospesero e basta. Gli americani non lo volevano perché, con Diego in squadra, tutti scommettevano che l’Argentina sarebbe arrivata in finale. Si erano spaventati, perché era tornato in forma. Per poter partecipare a quei Mondiali aveva perso venti chili. La Federazione lo aveva pregato in ginocchio per due volte: la prima, perché aiutasse la squadra a superare lo spareggio con l’Australia; la seconda, perché disputasse il torneo. E lui per due volte era riuscito a perdere peso. Diego era un notorio consumatore di cocaina, ma non in quei giorni. Nessuno, però, aveva provato a scagionarlo. Pensai che quella storia lo avrebbe travolto a breve, che non ne sarebbe uscito, come accadde in seguito a un altro campione, Pantani. Ma Diego, nel dolore, fu più fortunato. Si salvò, nel 2000, grazie a un intervento personale di Fidel Castro: «Questo ragazzo ha regalato gioia e divertimento a tutti. Se ora non c’è più nessuno che gli vuole dare una mano, ci pensiamo noi». Lo curarono a Cuba, e lo curarono bene”.
Quelle che avete appena letto sono le pagine che Gianni Minà ha dedicato a Maradona. Una delle tante storie fatte di sport e di uomini di sport che rendono l’autobiografia del giornalista, “Storia di un boxeur latino”, uno dei libri più intriganti e veri dell’anno (maledetto) che stiamo per lasciarci alle spalle. Ed è fronte di questo racconto e della vera amicizia che legava Minà al Pibe de Oro che in molti si sono chiesti perché la Rai, in questi giorni di rievocazioni continue sul D10S del calcio, non abbia trovato modo di ridare voce ad una delle firme di punta della storia della Rai medesima. Pensiero inutile. Nel 1996 Minà è stato fatto fuori dalla Rai. Gli fu decretato un ostracismo - di “regime, si può dire? - proprio perché Minà era ritenuto colpevole, tra le altre cose, di troppe simpatie per il “regime” cubano di Fidel Castro. Lo stesso Minà lo ha raccontato, senza peli sulla lingua, nella autobiografia di cui sopra. Ascoltiamolo.
“Nel 1996, arrivò il giorno in cui fui invitato a pranzo da un presidente della Rai. Salii al settimo piano di quel palazzo con uno strano rimescolio nello stomaco. Il presidente mi disse: «Lei è un patrimonio, una grande risorsa dell’azienda». Non servivano altre frasi: mi avevano già fottuto. Avevo dato alla Rai la mia vita, ma l’aria era cambiata e io non avevo voluto allinearmi. Chiusi le valigie senza drammi. Troppi compagni mi avevano insegnato il valore della libertà per mettere in saldo la mia, così piccola, e insignificante. In fondo ero sempre stato un irregolare che aveva puntato solo sul suo lavoro e sulla sua intraprendenza. Una volta un mio amico, un altro giornalista, mi aveva detto che avevamo commesso un errore a stare sempre dalla parte della ricerca della verità. Rappresentavamo un’altra idea di televisione, che si è rivelata perdente, soprattutto in quel passaggio storico, la stagione di Berlusconi. A me avevano riservato un trattamento particolare. Non avevano usato editti né censure pubbliche. Avevano deciso di liquidarmi così, senza clamore, con un metodo più semplice e più collaudato, il metodo dell’oblio. Credo di essere stato espulso per somma di ammonizioni e per decreto concorde di tutte le terne arbitrali. E pensare che ero figlio di un arbitro.”
Il figlio di un arbitro cui riuscì, una sera romana del 1984, di mettere insieme, attorno ad un tavolo, nel ristorante Checco er Carrettiere, a Trastevere, “cinque amici avidi di curiosità per ascoltare i racconti del più affascinante tra di noi, Muhammad Ali, un pugile, ma prima di tutto un combattente della vita. Con lui Sergio Leone, un visionario che ha dato al cinema tutta la fantasia possibile, Robert De Niro, che da quarant’anni viene indicato come il più prestigioso attore dell’arte cinematografica, e perfino Gabriel García Márquez, lo scrittore colombiano premio Nobel che, prima di andarsene da questo mondo, ci ha regalato alcune delle pagine più considerevoli della letteratura del Novecento”. Ma ai burocrati Rai uno che coltiva queste amicizie e che ha raccolto storie per mezzo secolo, in tutto il mondo, evidentemente interessa poco. Anzi, niente.
E dire che prima dell’ostracismo Minà era riuscito a raccontare in Rai anche della morte del guerrigliero e della partita sospesa. “Quando il 4 novembre del 1969 l’altoparlante annunciò che Marighella era morto in uno scontro a fuoco con la polizia politica, avevano interrotto perfino una partita di calcio. Giocava il Corinthians contro il Santos. Il calcio in Brasile è una religione e si sospende una partita alla fine del primo tempo immaginate quant’era clamorosa la notizia e quanto era amato dal popolo quell’uomo. E il Corinthians, che perdeva sempre contro la squadra di Pelé, quella volta stava conducendo per 4 a 1. Marighella in Italia lo conoscono in pochi, eppure era figlio di un anarchico emiliano e di una brasiliana di origini africane. Aveva scritto il Piccolo manuale della guerriglia urbana. Il suo compagno al seggio parlamentare, nel dopoguerra, per il partito comunista brasiliano, era stato Jorge Amado, lo scrittore”.
Hasta siempre, Gianni Mina’ !
Molte persone, pur nell'evidenza del suo spessore e della sua onestà intellettuale gli hanno girato le spalle e questo è andato a detrimento anche della Rai stessa. Di lui mi ha sempre catturata la pacatezza e la volontà che la parola dell'altro entrasse nella sua.