L'incoscienza felice di Laurent Fignon
Quando fu pubblicato, in Francia, eravamo alla fine del 2009. E lui, l’autore di una autobiografia sportiva appassionante e vera come poche, era ancora vivo. Pochi mesi dopo, successe il 31 agosto del 2010, Laurent Fignon ne andava, ucciso da un cancro al pancreas. Il suo Nous étions jeunesse et insouciants sarebbe diventato, Oltralpe, un testo imprescindibile nella narrazione del ciclismo degli anni Ottanta (ed immediati dintorni) del secolo scorso. Risulta difficile comprendere perché un testo così importante non sia stato tradotto in Italia. Meglio, perché non sia stato tradotto prima del maggio di quest’anno - tredici anni dopo la prima edizione - quando, finalmente, una piccola casa editrice (dal grande cuore e dalle grandi intuizioni) ha portato in libreria Eravamo giovani e incoscienti. 294 pagine (a 21 euro) ottimamente tradotte da Gino Cervi che è anche il curatore della collana paginealvento delle edizioni Mulatero (un mulo come simbolo, su i vessilli!) dove il testo di Laurent Fignon ha trovato il posto che meritava.
Sono pagine di dolente bellezza per il finale, quando già Laurent Fignon combatteva con la malattia e con le chemio. Sono pagine di sfrontata giovinezza nel racconto di una carriera iniziata per caso. Figlio di un operaio, parigino, era nato nell’agosto del 1960. Inforca la bici a quindici anni, per la prima volta. Nel 1976 il suo primo tesserino da giovane ciclista. Brucia le tappe, nel 1982 è professionista, l’anno dopo vince il Tour de France (però non c’era Hinault, diranno). Poco male, rivince il Tour l’anno dopo e questa volta al via c’era anche il grande Bernard. Suo anche il Giro d’Italia del 1989 e due volte, di seguito, la Milano-Sanremo.
Per tutti è stato il professore per via degli occhiali suoi compagni di pedalata, il corridore hippie che amava sempre andare all’attacco. Amava leggere, e tanto. Forse non è un caso che la sua biografia tutta in giallo sia arrivata dalle nostre parti nei giorni di una edizione del Tour de France di rara bellezza, quale da tempo non era dato vedere. Una sorta di ritorno al ciclismo della bagarre, delle sfide, dell’attacco, in antitesi ad anni di pedalate tattiche, attendiste, sempre in difesa.
Il libro di Fignon dovrebbe entrare nelle biblioteche di tutti gli appassionati di ciclismo e non uscirne più. E’ sincero, anche riguardo al doping, argomento ricorrente quando si parla delle due ruote a pedali. E non tralascia certo - anzi - i due momenti nei quali Fignon si è visto soffiare vittorie, strameritate, per delle combinazioni che ancor oggi (vieppiù leggendo quel che scrisse) appaiono quantomeno strane.
Perse il Tour per 8 secondi nel 1989, nell’ultima tappa a cronometro, superato da Greg Lemond, che usava una bicicletta tecnologicamente “sospetta”. Gli era successo anche al Giro, nel 1984, all’ultima tappa di Verona, a cronometro. Battuto da Francesco Moser cui - lo ribadisce in queste pagine tristemente postume - gli organizzatori avevano disegnato un percorso quasi ad hoc.
Scrive Fignon, di quel giorno nella fatal Verona: “Per trionfare sulle strade di Coppi non era mancato molto al ciclista che ero al tempo. Ma quel Giro manca ancora tanto all’uomo che sono adesso. Come un dolore. Il dolore è scomparso. Ma non il ricordo del dolore”.
La vita gli avrebbe poi riservato altre dure salite. Certo, non le temeva. In quel Giro del 1984 chi transitò per primo sulla Cima Coppi, sul Pordoi? Il ciclista hippie, ovvio.
Così le ultime parole di una autobiografia che riconcilia con il ciclismo, sport di fatica e di sognatori, di salite ardite e discese rovinose, sono lì, a rammentarci il sorriso di un ragazzo con gli occhialini da intellettuale che in bicicletta si sentiva bene, maledettamente felice.
Scrive: “Tutti, prima o poi, moriremo. Se a me dovesse succedere a breve, avrò avuto l’incredibile fortuna di andarmene senza rimpianti. Forse un po’ troppo giovane, certo. Ma senza rimpianti. Ho vissuto la più bella vita che si potesse immaginare. Non trovo altre parole per dirlo”.
Non si trovano altre parole per dire la bellezza di pedalare tra queste pagine.