Più che una pastora, mi sento una pecora
Eccola, Caterina De Boni: una figlia, una laurea in tecniche erboristiche, un quasi diploma al Conservatorio, soprattutto pastora transumante. È da poco in libreria freschissimo di stampa come certe mattine al pascolo, nelle sue terre alte, il suo A passo di pecora (Ediciclo editore, 192 pagine, 16 euro). Dove, ad un certo punto, succede che lei se ne sta tranquilla a pascolare le sue pecore, quando improvvisamente sente delle urla provenienti dalle rocce: era un arrampicatore vestito tutto attillato, sudato e unto, appeso come un salame a un moschettone, che ce l’aveva con lei. Guarda che schifo, senti che puzza di merda! Cosa sei te, rumeno”. Lei, ancora affaticata dalla camminata del giorno prima, voleva godersi quattro giorni di pace sul Piave, no di certo farsi insultare da un salame fosforescente sudato appeso ad un moschettone.
Presa dalla rabbia, inizia un monologo nella sua lingua madre, quella che, scrive, “tutti noi utilizziamo quando i pensieri ci partono direttamente dal cuore: la mia la chiamo “l’esperanto dei dialetti”, un mix di ampezzano, bellunese, trentino e friulano del Friuli occidentale”.
Il suo breve monologo (qui tradotto in italiano, ndr.) fu di questo tenore: “Per prima cosa io sarei una donna. E seconda cosa, non sono rumena ma sarei anche io di Belluno come te, se vuoi saperlo. Ti dà fastidio la puzza del letame di pecora? Anche tu vai di corpo tutti i giorni e le tue deiezioni puzzano più di quelle delle pecore, e inoltre quando ti levi quella tutina attillata e ti lavi il sudore con il sapone crei più inquinamento di loro. Ringrazia che oggi sono tranquilla se no liberavo i cani che venissero a morderti il sedere. Vattene fuori dalle scatole, per cortesia”. Postilla: “Seguì il mio repertorio da scaricatore di porto. Che gente! Non erano tutti così i turisti, per fortuna, trovavo anche diverse persone gentili”.
Che libro ha dunque scritto, Caterina De Boni? Anzi, ancora prima: chi è? È nata nel 1984, a Belluno, come il turista modaiolo – uno dei tanti maledetti pantofolai metropolitani che vorrebbero (e purtroppo sempre più spesso trovano) sushi, musica tecno e aperitivi oscenamente colorati in alta quota – bene comprese quel giorno, insultato come meritava. Non è solo pastora, suona diversi strumenti e per hobby è anche compositrice. Ha collaborato con diversi gruppi di musica folk dalla Val Badia a Trieste. Dalla nonna ha ereditato la passione per le erbe, che l’hanno portata ad ottenere la laurea in tecniche erboristiche e dalla mamma la passione per la lavorazione della lana di pecora. Collabora con istituzioni nell’ambito della promozione e della tutela della flora del Friuli anche attraverso il pascolo con le pecore. Assieme ad Adriano Bruna e all’erborista Fabio Ambrosi ha dato vita al Giardino Botanico alpino delle Dolomiti friulane (Erto -Cava Buscada, Val Zemola). È tra le protagoniste del docufilm sulle donne pastore In questo mondo (2018), di Anna Kauber, vincitore della 36ª edizione del Torino film festival come miglior docufilm italiano.
E il libro? Di cosa parla?
“Be', un po' lo si può capire dal titolo...però non ho scritto il classico racconto sulla vita di un pastore, bensì ho voluto raccontare dei luoghi che ho attraversato con il gregge e delle persone speciali che ho incontrato, ho voluto portare alla luce un mondo parallelo che ancora esiste, fatto di gente da pane al pane e vino al vino, che vive ancora secondo regole non scritte. Questo libro è un omaggio alle mie terre, alla mia grande casa, che ha come confini gli alti pascoli di Fosses a Cortina d’Ampezzo dove ho trascorso quasi metà della mia vita, fino ad arrivare alle pianure friulane, delle quali mi sono innamorata non appena ho mosso i miei primi passi sui ciottoli del Cellina, e ho mandato giù un sorso di vino travasato direttamente dalla botte di un contadino di Tesis. Tutto il resto è storia...”
Ovvero la storia vera di una delle ultime pastore transumanti d'Italia. Anche se, sentite un po’: “Più che una pastora, mi sento una pecora. Sarà per quello che finché le mie pecore non hanno mangiato a sufficienza è il mio stomaco che si sente vuoto. Sarà per quello che quando una pecora partorisce capisco guardandola negli occhi se è il caso di intervenire per aiutarla. Riconosco una madre che ha perso il cucciolo in mezzo a migliaia di mamme che belano tanto per fare quattro chiacchiere tra loro. Sento se un agnello ha mal di pancia. Lo sento nella mia pancia, il dolore. Ma forse queste cose le capisco anche perché sono una donna, e una mamma”.
Il suo è il racconto – che conquista, garantito - di un anno a piedi con mille pecore, tre asini, due cani e una fisarmonica, dalle pianure friulane alle Dolomiti di Cortina d’Ampezzo e ritorno. Un racconto che vuole aprire gli occhi dei lettori su un mondo sommerso ma ancora vivo, popolato da gente che non si è adeguata al mondo moderno dominato dalla tecnologia e dal digitale, ma che resiste ancorata a uno stile di vita considerato arcaico, rurale e anticonformista. Una narrazione sincera (compreso un processo concluso con un “grazie!” al giudice “per la giusta condanna”) con emozioni e fatiche, incontri, parole sagge, bevute di vino e cantate accompagnate dalla sua inseparabile fisarmonica.