Sara Fruner e quella luce laggiù
Una luminosa conferma. La luce laggiù, il nuovo romanzo di Sara Fruner, è arrivato nelle librerie a ribadire che la scrittrice di Riva del Garda è una delle voci più potenti della letteratura italiana. Le 310 pagine del libro (Neri Pozza editore, 20 euro) raccontano di una scrittura curata in ogni dettaglio, di una trama sapientemente costruita, di una capacità magnetica di penetrare le pieghe più nascoste. Un romanzo totalmente contemporaneo che ha l’incedere di un classico. L’Ulisse chiamato a superare gli scogli della vita è Moreno Mondo, fotografo di fama. È bloccato in una stazione, ha perso un treno, dopo aver fatto qualcosa di importante. Aspetta un altro treno, che non arriva. L’attesa gli permette di rivedere, come in un film – il cinema è uno dei protagonisti del libro, a partire dalle pellicole western amatissime dal padre – tutta la sua vita, quel che non può dimenticare. Il padre violento, la madre, l’altalenante rapporto con Didi. Non diremo altro della terza prova narrativa di Sara Fruner (dopo L’istante largo e La notte del bene), se non che appartiene al ristretto novero di quei libri che sanno accendere una luce, proprio laggiù, a rompere il buio che spesso ci circonda, per regalare bellezza, anche nel dolore. E rammentando anche le sue prove poetiche, culminate - per ora - ne La rossa goletta pubblicato, ed è una laurea, da Crocetti editore.
Sara Fruner, quale è stato fin qui il suo cammino, di vita e letterario?
Prima di frequentare Ca' Foscari a Venezia, mi sono diplomata al Liceo Sperimentale Linguistico A. Maffei di Riva del Garda, dove capii che la letteratura e le lingue straniere erano forze benigne a cui non potevo opporre resistenza. Avrebbero aumentato d'intensità nel corso degli anni universitari e post-universitari portandomi a due specializzazioni in traduzione letteraria, forma d'arte che pratico da sempre. Prima di partire per New York a fine 2016, ho abitato per sette anni a Trento. Lavoravo in un centro di ricerca internazionale in ICT a Povo , mi occupavo del comparto editoriale. Parallelamente, la sera, insegnavo inglese all'Istituto Universitario per Interpreti e Traduttori. Lì ho scoperto l'effetto galvanizzante che esercitava su di me l'insegnamento, la via che poi ho continuato a percorrere a New York: sono docente di italiano alla New York University e al Fashion Institute of Technology. Forse a Trento mi ricordano per le poesie che leggevo nelle serate alla Bookique, e per Let's Movie, una specie di club con blog che gestivo e che per sette anni ha raccolto attorno a sé i cinefili della zona e li portava al cinema, altra grande forza benigna a cui non so opporre resistenza.
Oggi può dire di sentire New York come casa sua?
No, non sento gli Stati Uniti come casa mia. Non sento nessun posto come casa mia, e questa è la condizione che mi fa vivere sempre in piedi, la penna per puntello. Quando mi sono trasferita a New York, correvo dietro al mio desiderio, ma sapevo che non sarebbe stata una scelta per la vita. Adesso gli anni newyorkesi stanno volgendo al termine, e altri anni si stanno affacciando, altrove, in Italia. Il mio desiderio continua a correre. Io, a stargli dietro, la penna a sostenermi.
Sara Fruner
La poesia è certamente parte importante della sua vita e sembra ritornare anche in alcuni passaggi de “La luce laggiù”. O siamo fuori strada?
No, è così. La poesia decide il modo in cui rivolgo lo sguardo prima del modo in cui articolo la parola. C'è un punto nel romanzo in cui si legge: “Nelle cose, Moreno vede quello che potrebbero essere. Il fratello, invece, quello che sono”. Ecco, la poesia fa un po’ questo, vede quello che le cose possono essere, non solo quello che all’apparenza sono. Attorno agli oggetti e ai soggetti rilevo una specie di troposfera che può incubare inaspettate forme di vita. La poesia le documenta, ne dà conto a noi. Penso che in essa ci sia molto di scientifico, scientifico nel metodo che ha di restituirle attraverso una lingua precisa, rigorosa, e al contempo immaginifera, vibrante. A questo metodo cerco di attenermi anche in prosa.
È ribadita l'importanza di pubblicare con editori riconosciuti, autorevoli. Lo è stato anche per lei agli esordi con Bollati Boringhieri. Oggi, cosa significa approdare ad un editore come Neri Pozza?
Significa trovare uno spazio in cui sentirsi accolti, liberi e curati. Neri Pozza ha abbracciato da subito, con calore e slancio il mio romanzo, in cui contenuto e stile si contendono la scena. Per me ha una forma binaria, nell'accezione ferroviaria più che diadica del termine: da una parte c'è un io narrante che parla in prima persona — il protagonista Moreno Mondo — e dall'altra, un narratore onnisciente che riempie i buchi lasciati dal personaggio. Il romanzo avanza su queste due rotaie. Da raffinato editore letterario qual è, Neri Pozza ha colto al volo che una grossa parte della mia ricerca è rivolta al “come” raccontare, non solo al “cosa”. Io potrò non sentirmi a casa da nessuna parte, ma i miei libri hanno il diritto di averne una che li capisca, li supporti e che creda alla loro intenzione in modo assoluto. Neri Pozza ha spalancato la porta e offerto tutte queste condizioni.
La scrittura è ancora e sempre salvifica?
Scrivere è tenere la luce accesa, mentre il mondo, “questo” mondo, tende a spegnerla, a farci scivolare nella tenebra. Tenerla accesa è un'operazione quotidiana, devozionale, proprio come la salvezza — esercizi quotidiani, scrittura e salvezza, sisifei, che si esauriscono ogni sera e ogni mattino vanno rinnovati. “La luce laggiù” vuole anche essere un invito a guardare un po' più in là. Se qui accanto è molto buio, laggiù, ci può essere una finestra che fa entrare il giorno.